Viaggio nell’arte senza confini di Max Magaldi
di Alessandro Mancini
Nato come musicista e batterista, Max Magaldi, classe 1982, è oggi un artista affermato nel campo della digital art e non solo. Dal 2018 ha iniziato a sperimentare azioni performative digitali che mescolano musica, arte contemporanea e hackeraggio sui social network, oltre ad aver sviluppato il concetto di murale sonoro. Ha realizzato sonorizzazioni e installazioni ha realizzato installazioni sia in Italia che all’estero, in paesi come Francia, Grecia e Arabia Saudita. Ha collaborato con artisti di fama come Edoardo Tresoldi, Gonzalo Borondo, Studio Azzurro e Andrea Villa.
Cofondatore di Off Topic, fervente hub culturale della città di Torino, dal 2021 fa parte di Cubo Teatro, collettivo di artisti multimediali che lavora su progetti di teatro performativo contemporaneo. Nel 2021, inoltre, ha dato vita a Memissima, il festival dedicato alla cultura dei meme, di cui è direttore artistico.
Il suo interesse per l’attualità, i temi sociali e la politica, e la sua ricerca artistica lo hanno indirizzato nel tempo verso la realizzazione di installazioni e performance pensate per spazi pubblici, in grado di stimolare la riflessione e lo spirito critico del pubblico verso i grandi temi del presente, come il dramma dei migranti, gli strumenti di propaganda politica e il nostro rapporto controverso con i social network.
“Come musicista ho fatto tutta una serie di progetti di nicchia e sperimentali. La sperimentazione, infatti, è il fil rouge di tutta la mia produzione artistica. Parallelamente, da quando avevo fra i 16 e 17 anni anni, ho organizzato anche festival ed eventi, quindi posso dire di aver vissuto sia il palco che il retro del palco,” racconta Magaldi. “Così nel 2013, quando vivevo a Sapri, ho creato un team con cui abbiamo messo insieme musica e street art, in un periodo storico in cui alcuni street artist stavano muovendo i primi passi verso l’arte contemporanea”.
La street art ha influenzato molto il pensiero e lo stile di Magaldi, che ha iniziato a indagare il rapporto quasi viscerale che gli artisti hanno con lo spazio pubblico, per provare a replicarlo dal punto di vista sonoro: “Anziché realizzare un’opera muraria, ne faccio una sonora, quindi sonorizzo lo spazio pubblico, in modo tale che quell’opera abbia senso solo in quel luogo specifico”. Così è nato il concetto di “murale sonoro”.
In quel periodo, inoltre, quando aveva circa trent’anni, un suo caro amico lo ha avvicinato alla musica elettronica: così è nato il progetto The Drama, termine dello slang americano che si usa per indicare il batterista (the drummer, in inglese), ma che, allo stesso tempo vuol dire “dramma” (“Sono fissato con le omofonie”, ammette l’artista). In questo caso il dramma si riferiva alla tragedia della migrazione, tema che già all’epoca era molto caldo.
“Mi ero prefissato di fare una serie di azioni che lavorassero su quel tema lì,” spiega Magaldi, “quindi il primo cosiddetto murale sonoro l’ho immaginato dedicato al porto di Trieste, uno dei più grandi hub petroliferi europei. La sonorizzazione era invece una sorta di canzone il cui testo era costituito da alcune dichiarazioni di Daniela Santanché, che è stata la prima politica italiana a usare l’espressione ‘affondare i barconi’ per fermare ‘l’orda di invasori’”.
Con questo murale sonoro però Magaldi stravolge il significato delle parole di Santanché, che, se ascoltate mentre si osservano le immagini delle petroliere che entrano nel porto, sembrano riferirsi a queste e non ai migranti, giocando quindi sull’ambiguità intrinseca al linguaggio: “Le parole cambiano senso in base al luogo e al contesto in cui vengono pronunciate”.
Per diffondere questo murale sonoro Magaldi ha deciso di creare una pagina Facebook intitolata STOP Barconi, “per 2 mesi ho fatto sostanzialmente propaganda salviniana: rilanciavo gli slogan condivisi da Salvini, che all’epoca era ministro dell’Interno, e poi ho iniziato a pubblicare meme su di lui, che in realtà erano delle prese in giro nei suoi confronti”. La pagina in poco più di due mesi ha raccolto circa trentamila follower e due giorni prima delle elezioni europee ha annunciato che avrebbe trasmesso per la prima volta l’affondamento in diretta di un barcone pieno di migranti. Il titolo della diretta era Riportiamogli a Casa l’Oro: un gioco di parole che suonava come la frase “Riportiamoli a casa loro”, riferita solitamente ai migranti. “In realtà la diretta riprendeva l’ingresso di una petroliera nel porto di Trieste, mista a immagini del Delta del Niger, con sotto la sonorizzazione che avevo preparato con le parole di Santanché”. Il video è stato ricondiviso e commentato con frasi razziste da migliaia di fan salviniani, che però non avevano capito nulla di quello che stava succedendo: “Li avevo trollati”. Da quel momento ho tolto la maschera e la pagina si è dichiarata ufficialmente un esperimento sociale.
Magaldi si è laureato in Scienze della comunicazione nel 2005: “In quell’anno non esisteva praticamente nulla di quello che poi ha rivoluzionato il mondo della comunicazione: non esisteva YouTube né Facebook, per esempio. In quel momento, appena uscito dall’università, ho avuto l’impressione che tutto quello che avevo studiato e vissuto si stesse frantumando sotto i miei piedi. In fondo sono un uomo del Novecento e sono legato al concetto di autorialità e di approfondimento, mentre il mondo iniziava a muoversi inseguendo la velocità e la superficialità. Ho vissuto un vero e proprio choc culturale. Così, quando ho iniziato a scoprire i meme sulle prime bacheche social o su 4chan, utilizzati anche come strumento creativo, sono rimasto molto colpito – racconta – e ho pensato che se proprio dovevo rinunciare al Novecento, l’unico motivo per cui ero disposto a farlo era in nome del caos totale, dell’anarchia, e il mondo dei meme, in effetti, è un mondo profondamente anarchico e incontrollabile. In un certo senso, attraverso i meme, mi sono riappacificato con la contemporaneità”.
Da qui è nata la grande passione per i meme di Magaldi, che nel 2020 ha deciso di trasformarla in un festival, il Memissima: “Un festival che mi serve a studiare e a tenermi aggiornato su cosa c’è di nuovo su questo fronte” e che nell’ultima edizione ha premiato Gerry Scotti con l’Oscar per il “Personaggio più memato dell’anno”.
Seguendo il filone The Drama, nel gennaio del 2020, assieme all’artista Andrea Villa, Magaldi si è recato sull’isola di Lesbo, che all’epoca ospitava il campo profughi più grande d’Europa, quello di Mori, e che viveva una situazione di grande sofferenza (stazionavano lì ventiduemila migranti per una capienza prevista per tremila persone), per realizzare un’installazione dal forte impatto emotivo. Il progetto si chiamava Europe/YourHope (un’altra omofonia) ed è stato allestito nel sito denominato Lifejacket Graveyard (“cimitero dei salvagente”, in italiano), una sorta di discarica dove la nettezza urbana dell’isola portava tutti i resti di vestiti, scarpe, gommoni sgonfi, e ciambelle salvagente improvvisati, abbandonati sulla terraferma dai migranti, accumulandoli in montagne di rifiuti alte diversi metri. Qui i due artisti hanno realizzato due colonne costituite dalle camere d’aria del salvagente, che rappresentavano simbolicamente le colonne d’Ercole, e una sonorizzazione della durata di 48h, riprodotta da un monitor che trasmetteva un discorso del premier greco Mītsotakīs, che parlava di diritti e di uguaglianza, e che si trasformavano in una versione dark dell’Inno alla gioia di Beethoven. “L’installazione mirava a far riflettere sulle sofferenze e sui soprusi subiti dai migranti, invitando l’opinione pubblica europea a superare le ‘colonne d’Ercole’ della diffidenza verso l’altro per far sì che l’Europa diventasse una vera terra di speranza per i migranti”.
Sempre durante il periodo della pandemia di Covid-19, quando il tempo che abbiamo passato davanti agli schermi è aumentato esponenzialmente, Magaldi ha iniziato a riflettere su come l’uso e l’abuso dei device tecnologici stesse cambiando il nostro rapporto con il vizio. È nato così il progetto Vices/Devices (anche in questo giocando sull’omofonia tra due parole), una serie di sette installazioni A/V in cui l’artista esplora la relazione tra tecnologia e comportamento umano. “Fino a trenta-quaranta anni fa, per attuare un comportamento che ricadeva in uno dei sette vizi capitali, dovevi fisicamente recarti in un posto per commettere quel vizio – spiega Magaldi –mentre oggi grazie ai device ipoteticamente possiamo accedere a qualsiasi cosa in qualsiasi momento: questa novità ha cambiato il nostro rapporto con il vizio e ne ha creati di nuovi”.
Il primo vizio da cui è partito l’artista è la vanagloria: “È qualcosa che io vivo sulla mia pelle e che ho avuto bisogno di esorcizzare. Nonostante sia appassionato e abbia lavorato tanto con i social network, allo stesso tempo ho un forte problema con l’utilizzo personale di questi strumenti. Sono sempre stato abituato a utilizzarli dietro l’anonimato o in ottica performativa, come nel caso di STOP Barconi. Quando invece devo parlare di me stesso e di quello che faccio, vado in crisi”. #Vices – Vainglory critica la nostra ossessione nel mostrarci e raccontarci quotidianamente sui social, passando da soggetti passivi ad autori, sceneggiatori e registi delle nostre stesse vite.
La prima messa in atto di Vainglory si è svolta nel dicembre 2021 all’interno dello storico teatro Petrella di Longiano, nella provincia di Forlì-Cesena. Qui un’orchestra costituita da centocinquanta telefoni e duecentoventi laptop, per i quali Magaldi aveva selezionato centosettanta contenuti diversi, scaricati dai social, in cui gli utenti eseguivano diverse azioni (chi ballava, chi preparava ricette, chi mostrava tutorial, etc.), illuminava e sonorizzava lo spazio pubblico, mentre i contenuti social manipolati dall’artista, diventano la colonna sonora. In questo modo il ruolo degli spazi teatrali veniva ribaltato: il pubblico diventava il vero protagonista dell’opera, mentre il palcoscenico restava vuoto. “Durante la performance, le persone arrivavano dal retro – racconta l’artista – mentre pian piano si accendevano i vari device, che andavano a illuminare la platea e la balconata. Il senso dell’installazione è mostrare – continua – come le masse non siano più formate da soggetti passivi ma da creator sempre attivi: oggi il pubblico produce compulsivamente contenuti di qualsiasi tipo. Per la prima volta nella storia dell’umanità, ci troviamo in un periodo storico in cui le persone si raccontano da sole o si illudono di raccontarsi. Siamo nell’era dell’auto-narrazione. Apparentemente, non c’è più bisogno dell’artista che racconta la società perché è questa a raccontarsi da sola”.
Andy Warhol sosteneva che nel futuro ciascuno avrebbe avuto i suoi quindici secondi di notorietà, ma Magaldi non è d’accordo. “Oggi avviene qualcosa di diverso: tutti credono di essere famosi per sempre, ma questo, in verità, accade solo a una cerchia ristretta di persone. Siamo tutti artisti, creativi, opinionisti, o per lo meno pensiamo di esserlo e anche se abbiamo solo quindici follower, facciamo tutto questo per loro e crediamo che abbia senso farlo. Siamo diventati tutti artisti e allo stesso tempo pubblico di noi stessi”.
Alessandro Mancini
Laureato in Editoria e Scrittura all’Università La Sapienza di Roma, è giornalista freelance, content creator e social media manager. Tra il 2018 e il 2020 è stato direttore editoriale della rivista online che ha fondato nel 2016, Artwave.it, specializzata in arte e cultura contemporanea. Scrive e parla soprattutto di arte contemporanea, lavoro, disuguaglianze e diritti sociali.