Umanesimo Artificiale
di Fabio Gnassi e Arianna Iodice
Filippo Rosati è il Fondatore e Direttore artistico di Umanesimo Artificiale.
Dopo una laurea in marketing e strategia (MSc) presso l’Università Bocconi di Milano con double degree presso la Copenhagen Business School, ha lavorato in consulenza e in agenzie creative in Europa e in Asia. Dal 2017, anno in cui fonda Umanesimo Artificiale di cui è Presidente, si occupa di arte, scienza, tecnologia mediando tra le discipline ed esplorando le intersezioni tra arte, design, robotica, biologia, hacking, con un approccio sperimentale alla ricerca artistica e scientifica.
Potrebbe raccontarci in che modo è nato il progetto Umanesimo Artificiale spiegandoci, a partire dal significato del nome, le motivazioni che l’hanno spinta a avviare questa iniziativa e gli obiettivi che si è posto di raggiungere?
Umanesimo Artificiale nasce sei anni fa, quando sono tornato a Fano, nelle Marche, mia città natale, per avviare un’attività imprenditoriale nel campo dell’intelligenza artificiale, dopo tredici anni di esperienze tra Europa e Asia. All’inizio la startup si occupava di creare prodotti business, ma il mio interesse per l’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie “esponenziali” andava oltre il semplice software aziendale. Mi piaceva affrontare la tematica da un punto di vista più visionario e speculativo. Così ho deciso di creare un’associazione culturale,
Umanesimo Artificiale (che è tuttora una non-profit, anche se stiamo parallelamente aprendo uno studio), identificando in una domanda di ricerca quella che era la mia curiosità: “Cosa significa essere umani nell’era delle intelligenze artificiali?”. La tecnologia ha sempre accompagnato e spesso accelerato il progresso umano, ma mai come ora ha raggiunto una capacità di auto-apprendimento tale da avvicinarsi sempre di più al modo di pensare umano, facendo proprie competenze un tempo impensabili per un computer. Ancor più impensabile, era che un computer potesse svolgere queste attività meglio di quanto possa farlo un essere umano. Questo ci spinge a ridefinire chi siamo come individui e, come tali, chi siamo all’interno della società. Questo percorso deve partire da un processo di introspezione, in cui il canale artistico può svolgere un ruolo molto importante.
Dopo essersi formato professionalmente all’estero, ha deciso di avviare questo progetto in Italia, integrando profondamente il suo lavoro nel contesto locale.
Qual è stata la sua impressione al momento del ritorno e come descriverebbe il contesto culturale italiano in relazione alle tematiche legate al suo ambito di ricerca?
Umanesimo Artificiale è nata perché nella zona (Fano, Romagna e Regione Marche) non c’era nessuna realtà che affrontasse questi temi, soprattutto da un punto di vista artistico. È nata da un’esigenza concreta e – come dico spesso – ha senso proprio perché è a Fano, una cittadina di 60.000 abitanti. Anche se collaboriamo con diverse realtà in Italia e in Europa, è in luoghi come Fano che è importante parlare di intelligenza artificiale, cyborg art, e proporre eventi di arte, scienza, tecnologia per riflettere sull’impatto delle nuove tecnologie sulla società, affinché non siano temi relegati solo alle grandi città, già sature di questi discorsi.
Mi piace anche ricordare che Fano a cavallo tra gli anni ’90 e 2000 ha ospitato Il Violino e La Selce, un festival con direttore artistico Franco Battiato, che ha ospitato artisti come Ryoji Ikeda, Pan Sonic, Coil, Bjork (in esclusiva nazionale), Steve Reich, Lou Reed e altri.
Culturalmente Fano è sempre stata attiva e ricettiva, fin dai tempi dell’Antica Roma. Fano infatti è stata una colonia romana ed è la città che ospitò Vitruvio che la citò anche nel suo De Architectura.
Quello che abbiamo trovato è curiosità da parte del pubblico, anche se talvolta con un po’ di “timore reverenziale” verso queste tematiche che per alcuni sono sensibili. In questo, però, credo l’arte può aiutare ad avvicinare un pubblico sempre più ampio. Per quanto riguarda le istituzioni, preferisco sorvolare, ma non essersi istituzionalizzati ci permette di rimanere indipendenti e di dire/fare quello che più ci piace. Magari qualcosa cambierà in futuro, un po’ ci spero, e magari può aiutare il fatto che Pesaro 2024 Capitale Italiana della Cultura quest’anno ci abbia affidato la curatela di un programma di dossier all’interno del ricco programma di eventi della capitale della cultura.
Cosa significa essere umani nell’era delle intelligenze artificiali?
Umanesimo Artificiale appare come un laboratorio multidisciplinare in costante crescita. Potrebbe fornirci una panoramica sull’evoluzione del progetto descrivendo le attività e le iniziative promosse negli ultimi anni?
I primi eventi sono stati performativi, con i Nonotak e Robert Henke (Monolake) al Teatro della Fortuna e Caterina Barbieri alla ex Chiesa San Francesco, una spettacolare chiesa a cielo aperto in centro a Fano. Fin da subito abbiamo iniziato a fare anche workshop su livecoding, processing, touchDesigner e laboratori per bambini su pensiero computazionale e scratch. L’evoluzione è stata poi verso progetti di ricerca, sia su commissione sia interni di ricerca personale. Oggi abbiamo il Transmedia Research Institute che sperimenta nuovi formati di ricerca e formazione. Stiamo lanciando uno studio, Operating system, per portare avanti progetti che come associazione culturale non riusciamo a portare avanti. Rimane sempre l’associazione culturale Umanesimo Artificiale per progetti più trasversali.
Tutto cresce e si modifica in modo organico, in base alla curiosità personale e alle connessioni e collaborazioni che nascono. Negli ultimi anni, la domanda “che cosa significa essere umani nell’era delle intelligenze artificiali” ci ha portato a investigare tecnologie che si avvicinano sempre di più al corpo umano, arrivando anche a perforarlo.
Quindi implantables: impianti transcranici come il cyborg Neil Harbisson o impianti neurali come ad esempio Neuralink di Elon Musk; ingestibles come Stomach Sculpture di Stelarc o nanorobot ingeribili; wearable technology: e-skin, second skin in biomateriali e tutta la ricerca di Luca Pagan su embedded technology. Per arrivare infine alla tecnologia intorno al corpo intesa con il concetto di scomposizione e moltiplicazione del corpo nelle reti.
Le premesse culturali del suo lavoro permettono di analizzare l’applicazione della tecnologia in maniera trasversale, da ambiti culturali ed espressivi fino alle scienze applicate. In relazione alla sua esperienza, quale forma d’arte riesce a metabolizzare e a reinterpretare al meglio le possibilità introdotte dall’integrazione del tecnologico?
Non provenendo da un background artistico “classico” ma più scientifico e tecnologico, ed essendo interessato tanto all’output finale quanto al processo sperimentale che lo ha generato, mi sono sentito fin da subito a mio agio nel territorio di mezzo tra arte, scienza e tecnologia. Nel mio passato da consulente ho lavorato a progetti che coinvolgevano l’MIT Media Lab e i suoi professori, visitandolo varie volte. L’MIT Media Lab è una fonte di forte ispirazione per Umanesimo Artificiale.
C’è un termine bellissimo che usa il Media Lab del MIT di Boston per questo tipo di approccio: “antidisciplinarietà”, definita come l’insieme di spazi bianchi tra le varie discipline, con un proprio linguaggio, framework e metodologie. Quando rispondo a domande su cosa facciamo oppure a che progetti lavoriamo, rispondo sempre che indipendentemente dai progetti – tanti e molto diversi l’uno dall’altro – ciò che caratterizza Umanesimo Artificiale è l’approccio antidisciplinare con il quale affrontiamo ogni singolo progetto. Questo è quello che ci viene riconosciuto, è quello che il nostro pubblico e i nostri partner si aspettano, ed è quello che ricerchiamo nei nostri collaboratori.
Lavoriamo a progetti in cui la parte artistica e quella scientifica iniziano insieme, al giorno zero, allo stesso livello e procedono parallelamente influenzandosi a vicenda. È un modo più complesso rispetto ad abbellire un esperimento scientifico o coinvolgere uno scienziato a giochi fatti per rendere più credibile un progetto artistico, ma dà i suoi frutti.