Scroll Top

Syntax War

Il linguaggio come campo di battaglia: dal framing politico alla rete algoritmica

di Martina Maccianti


È di questi giorni la notizia della decisione di Donald Trump di introdurre una lista di parole “bandite”, termini che non dovranno più comparire, o essere sensibilmente ridotti, nei documenti ufficiali, per allinearsi alla sua visione politica. 

George Lakoff, linguista e professore di linguistica cognitiva all’Università di Berkeley, ha posto al centro del suo lavoro il concetto di framing. Il frame rappresenta la cornice cognitiva entro la quale un concetto viene presentato, influenzando il modo in cui viene compreso. Questo meccanismo, sfruttato ovviamente in gran parte nella comunicazione politica e mediatica, evidenzia la potenza del linguaggio nel modellare il pensiero. Secondo Lakoff, il modo in cui vengono incorniciati i concetti politici influisce direttamente sulla percezione e sul comportamento degli elettori. I frame sono strutture mentali che aiutano a interpretare la realtà: quando un politico usa un certo linguaggio, non sta solo comunicando un’informazione, ma sta attivando nella mente degli ascoltatori un frame specifico, che orienta la loro interpretazione della questione, la modella. La lezione di Lakoff è semplice: chi controlla il frame vince il dibattito.

The LGBTQ+ advocacy group's new online crossword puzzle using only words banned by Trump administration. via https://itgetsbetter.org/bannedwordscrossword/

Fatto questo dovuto perimetro di pensiero, torniamo al punto di partenza. L’idea che alcune parole possano essere bandite ci porta inevitabilmente alla riflessione su come il linguaggio sia sempre stato un’arma politica; questa però si innesta, oggi, in un contesto in cui il linguaggio stesso è ridefinito costantemente dalle tecnologie digitali. Se un tempo il potere si esercitava principalmente attraverso la censura o la ridefinizione dei significati, oggi si manifesta anche nell’architettura stessa della comunicazione: gli algoritmi decidono cosa vediamo, quali parole hanno maggiore visibilità e quali vengono relegate ai margini. Se da un lato, il linguaggio si conferma un’arma, una tecnologia capace di modellare la percezione della realtà, dall’altro, emergono interrogativi significativi sul funzionamento stesso della comunicazione in un’epoca di crescente automazione. 


Mentre il linguaggio umano è sempre un atto situato, radicato in un’intenzionalità e in una storia, il linguaggio della macchina si muove in uno spazio di simulazione pura, dove la verosimiglianza rimpiazza la verità e l’apparenza diventa indistinguibile dalla realtà, lasciandoci nuovi spazi di resistenza, immaginazione e azione.

 

La filosofia occidentale ha spesso considerato il linguaggio come una struttura fondante della soggettività umana, un sistema di rappresentazione che ci permette di esistere in quanto esseri parlanti. Da Saussure a Lacan, il linguaggio è stato pensato come un insieme di segni che ci costituisce e definisce. Per Lacan, l’ingresso nell’ordine simbolico è ciò che ci rende soggetti: il linguaggio non è solo uno strumento di comunicazione, ma il mezzo attraverso cui il desiderio si struttura e si trasmette, in un gioco infinito di slittamenti e differenze. Questa concezione implica una visione del linguaggio come esclusivamente umano, radicata in una logica di rappresentazione e profondità. Il soggetto è colui che parla, ma allo stesso tempo colui che è parlato dal linguaggio.

Protest sign against removal of the word “transgender” from the Stonewall National Monument website during a rally outside of The Stonewall Inn, New York City.

Ma cosa succede quando il linguaggio non è più soltanto umano? Katherine Hayles, una delle voci più influenti nella teoria postumana e negli studi sui media digitali contemporanei, ha concentrato la sua ricerca sul rapporto tra tecnologia, informazione e soggettività, studiando come la cultura digitale e i sistemi cibernetici abbiano trasformato la nostra comprensione dell’umano. Nei suoi studi Hayles propone una svolta radicale rispetto a questa tradizione attorno al linguaggio: l’avvento delle tecnologie digitali e dei sistemi cibernetici introduce una nuova dimensione della comunicazione, dove il linguaggio non è più soltanto un sistema simbolico, ma un flusso di informazioni. Il lavoro di Katherine Hayles rappresenta una delle più radicali decostruzioni del paradigma simbolico nella filosofia contemporanea. La sua riflessione mostra come il linguaggio umano non sia più l’unico sistema di significazione, ma uno dei tanti circuiti attraverso cui l’informazione, in questo caso, circola e si organizza. Hayles ha di fatto aperto la strada a una nuova ontologia della soggettività. Mentre il linguaggio simbolico si basa sulla rappresentazione di significati, l’informazione cibernetica si fonda sulla trasmissione di pattern e segnali. In questo paradigma, il soggetto non è più il centro di produzione del significato, ma un nodo in una rete di elaborazione distribuita. La soggettività diventa una proprietà emergente della circolazione di informazioni.

L'ibridazione tra umano e non umano ridisegna la nostra posizione nel mondo, le nostre possibilità di azione e di effettivo hackeraggio di quello che consideriamo definito e fuori dalle nostre competenze.

Se nel linguaggio umano la verità è sempre stata un concetto sfumato, mediato da interpretazioni e costruzioni culturali, in quello della macchina non viene cercato il senso, bensì la correlazione statistica, l’ottimizzazione della trasmissione del dato. In questa prospettiva, ci troviamo di fronte a un paradosso in cui possiamo tracciare una crepa ed esplorare nuove possibilità: se da un lato la censura politica tenta di controllare il linguaggio imponendo divieti e nuove cornici, dall’altro la tecnologia opera un’altra forma di frammentazione, più sottile ma forse più radicale, decidendo cosa è rilevante in base a criteri di efficienza computazionale. 

Questo cambiamento di prospettiva e volume implica che non siamo più i soli produttori di significato: la soggettività diventa un effetto emergente della nostra interazione con macchine e reti digitali. L’ibridazione tra umano e non umano ridisegna la nostra posizione nel mondo, le nostre possibilità di azione e di effettivo hackeraggio di quello che consideriamo definito e fuori dalle nostre competenze.

La decisione di Trump di vietare alcune parole ci ricorda, sì, il potere agito tramite il linguaggio, ma ci apre la vista anche su una storia diversa: il controllo linguistico, e conseguentemente la rappresentazione del reale, oggi si esercita non solo attraverso divieti espliciti, ma tramite l’architettura stessa della comunicazione. In un’epoca in cui il linguaggio non è più solo umano, ma parte di un ecosistema digitale in continua trasformazione, la sfida non è solo difendere il linguaggio dalle ingerenze politiche, ma ripensare il nostro rapporto con esso. La vera rivoluzione potrebbe non essere solo quella di insegnare alle macchine a comprendere il linguaggio, ma immaginare nuovi modi di abitare questa zona intermedia tra umano e artificiale, tra simbolico e computazionale, tra controllo e riscrittura, per  compiere un reale sorpasso di senso di quella politica attaccata con mani e denti a ogni parola e costruzione.

Martina Maccianti

Classe 1992, scrive per decifrare contemporaneità e futuro. Tra linguaggio, desiderio e utopie, esplora nuove visioni del mondo, cercando spazi di esistenza alternativi e possibili. Nel 2022 ha fondato un progetto di pensiero e divulgazione chiamato Fucina.

LEGGI ALTRO