Internet come spazio di guarigione. Intervista a Valentina Tanni
di Viola Giacalone
L’Oxford English Dictionary ha scelto “brain rot” come parola dell’anno 2024. L’espressione – che potremmo tradurre con “marcescenza del cervello” – cattura perfettamente quella sensazione di torpore mentale che si prova dopo aver passato ore a scrollare senza meta sui social, e riflette sugli effetti di un consumo compulsivo e passivo di contenuti digitali.
Sembrerebbe che siamo arrivati ad associare internet ad una palude, quando per le mani abbiamo un vastissimo e ultra-funzionante parco giochi. Per chi si interessa di “spazi” online, il saggio “Exit Reality” (edito Nero) della curatrice, autrice e ricercatrice Valentina Tanni è un riferimento importante. Abbiamo discusso con lei di come internet possa essere tanto un luogo di cura quanto di smarrimento.
In Exit Reality scrivi di come le persone utilizzino sempre più la tecnologia a scopi terapeutici, ipnotici, spirituali per esorcizzare paure collettivamente o individualmente.
Quando parlo di “usi terapeutici” della tecnologia in Exit Reality, non mi riferisco a processi strutturati. Si tratta piuttosto di comportamenti spontanei – abitudini, pratiche, azioni, rituali – che gli utenti inventano e applicano in maniera intuitiva ed empirica. L’utilizzo di determinati suoni, ad esempio, può aiutare le persone a rilassarsi, a concentrarsi o a dormire; l’ASMR e i video ambience possono essere dei supporti per pratiche di auto-ipnosi e meditazione, oppure semplicemente fare da sfondo ad altre attività rendendole meno spiacevoli. Alcune di queste pratiche possono innescare o supportare processi di guarigione, ma più spesso sono tattiche di coping. Quando invece si tratta di dinamiche collettive, la tecnologia diventa un mezzo per trovare la propria comunità, condividere traumi, esperienze e possibili cure. Sentirsi meno soli può avere una ricaduta importante in termini di salute mentale.
Sappiamo però che internet è anche un luogo traumatico, che i social creano dipendenza e che forse sono complici dello svilupparsi di molte nuove paure. Nelle tue storie di instagram qualche giorno fa, dopo aver elencato le parole del 2024 secondo alcuni dei più importanti dizionari in lingua inglese come “Brain Rot” per l’Oxford, “Brat” per Collins, invitavi la gente “ad uscire e toccare l’erba”. Da persona che passa gran parte del suo tempo online, per lavoro e per diletto, come fai a trovare un equilibrio tra il tempo passato su internet e il toccare l’erba?
Il mio equilibrio è precario: lo perdo e lo ritrovo ciclicamente. Ho imparato ad accettare l’impossibilità di mantenerlo in maniera costante. Cerco, come tutti, di limitare il mio tempo online, ma anche di non colpevolizzarmi troppo non ci riesco. Più in generale, penso che “toccare l’erba” sia un’espressione efficace, ma è importante ricordarsi che si tratta solo di una metafora. Il contatto con la natura – senz’altro utile in tanti casi – non è un antidoto infallibile. Se non siamo nello spazio mentale giusto, anche la natura può essere fonte di angoscia, paura e smarrimento. Personalmente, credo che le sorgenti di salvezza siano due: coltivare la propria spiritualità, il proprio spazio interiore (ognuno a modo proprio) e curare le relazioni con gli altri. Condividere, per me, è l’atto essenziale, sempre.
Nel tuo blog, archivi cose speciali e creative che avvengono su internet: “This is the internet that I fell in love with, almost thirty years ago <3” scrivi in riferimento a uno di questi esempi virtuosi. Mi ha fatto riflettere sul fatto che una buona percentuale del mio tempo passato su internet è dedicata allo scrollare sui social, vado lì in automatico, quanto c’è molto di più da fare. Siamo caduti in delle trappole che limitano la nostra visione di internet? Se sì, come uscirne?
Le piattaforme social – nella loro fisionomia attuale – sono estremamente problematiche, è banale dirlo. Uno degli effetti peggiori è proprio quello di cui parli: hanno canalizzato gran parte del traffico online fino a diventare, per molte persone, sinonimo di “internet”. Questa evoluzione è tragica, perché se c’è una cosa che la rete ha sempre offerto, e in un certo senso ancora offre, è un oceano di alternative. Nonostante lo spam, i contenuti generati e la disinformazione dilagante, internet è ancora un luogo dove si può trovare una quantità vertiginosa di cultura umana: arte, scienza, storia, archivi di ogni genere, forum di discussione, luoghi di vera socialità. È necessario fare uno sforzo per uscire dalle strade già tracciate dall’algoritmo, rivendicando ogni giorno la propria autonomia e la propria attenzione. Più che cercare spasmodicamente di trovare piattaforme sostitutive, è importante capire che internet può esistere aldilà di esse.
Un consiglio pratico: rispolverare i feed RSS.
Le piattaforme social hanno canalizzato gran parte del traffico online fino a diventare, per molte persone, sinonimo di “internet”. Questa evoluzione è tragica, perché se c’è una cosa che la rete ha sempre offerto, e in un certo senso ancora offre, è un oceano di alternative.
Fino a settembre 2025 al MAMbo di Bologna sarà esposta la tua opera The Great Wall Of Memes. La prima volta che è stata esposta in uno spazio fisico era il 2013, come si evoluto il tuo progetto per arrivare alla sua forma attuale? Trovi che il grande gioco collettivo dei meme sia cambiato tanto in questi anni?
Sì, il processo di raccolta e organizzazione delle immagini è iniziato nel 2012, ma ha preso per la prima volta la forma concreta di un “muro” l’anno seguente. L’installazione si è evoluta molto nel tempo, sia perché mi piace riprogettarla ogni volta, sia perché trovo che sia sensato mantenere una certa fluidità, in linea con la natura dei materiali che compongono l’archivio. Nella prima installazione, all’Istituto Svizzero di Milano, le immagini erano inserite all’interno di una grande cascata disordinata: non c’era un ordine preciso, la mia idea era quella di riprodurre il caos informativo e giocare sulla giustapposizione casuale di contenuti di natura e provenienza molto diverse. Le versioni seguenti, invece, hanno sempre seguito un criterio di organizzazione: i meme sono divisi in gruppi, grandi famiglie all’interno delle quali è possibile ravvisare dei fili conduttori (tema, stile, approccio). I diversi “cluster” sono separati da spazi bianchi e dunque nettamente percepibili. Questa organizzazione secondo me funziona molto meglio perché sottolinea la natura plurale del meme: un meme non è un’immagine singola, ma un anello all’interno di grandi catene in continua espansione. Se sono cambiati i meme negli ultimi anni? Decisamente si, talmente tanto che ci vorrebbe un altro libro per raccontarlo
Mi indicheresti tre dei tuoi “healing places” spazi di guarigione preferiti online? Pagine, profili, siti…
I miei luoghi preferiti online sono: i commentari di alcuni video di YouTube (soprattutto canzoni, vecchi film e video ambience) che spesso diventano luoghi di scambio emotivo sincero e potente; alcuni subreddit a cui sono molto affezionata (tipo r/ObscureMedia e r/Showerthoughts); un paio di server di Discord. Ah, e questo video: https://youtu.be/ykxfJ70moV8?si=vwomDS1CTqW6Zmhl.