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Fine del Fact-Checking: Meta Abbraccia il Modello Musk tra Libertà di Espressione e Rischio Disinformazione

di Niccolò Carradori
Redazione THE BUNKER MAGAZINE

Martedì scorso Mark Zuckerberg, amministratore delegato di Meta, ha annunciato la fine del programma di fact-checking su Facebook e Instagram. Al suo posto, ha dichiarato, verrà introdotto un sistema di “Community Notes” già sperimentato su X (l’ex Twitter) sotto la guida di Elon Musk. Questa decisione, circoscritta per ora agli Stati Uniti, ha immediatamente attirato il plauso di Donald Trump e del suo entourage, segnando quello che molti osservatori considerano un vero e proprio riallineamento ideologico tra Meta e il neo-eletto presidente americano.

Con un video diffuso sui social, Zuckerberg ha dichiarato che il programma di fact-checking – attivo dal 2016 e basato su collaborazioni con organizzazioni terze indipendenti – aveva ormai fallito, diventando “troppo politicamente di parte” e generando più sfiducia di quanta ne avesse mai garantita. “È tempo di tornare alle nostre radici: la libertà di espressione,” ha affermato il CEO, lasciando intendere che le nuove politiche riflettano un compromesso necessario per limitare la censura e ridurre gli errori nell’eliminazione dei contenuti. Tuttavia, ha ammesso che ci saranno più “cose negative” sulle piattaforme, una sorta di pedaggio inevitabile per garantire il sacro principio del free speech.

Per capire la portata di questa scelta, occorre ripercorrere il contesto. Nel 2016, all’indomani della vittoria elettorale di Donald Trump, Meta (all’epoca ancora Facebook) si trovò travolta dalle accuse di aver alimentato la disinformazione, dando spazio a contenuti manipolatori, teorie del complotto e campagne orchestrate da attori stranieri. Per rispondere alla crisi di credibilità, Zuckerberg istituì il programma di fact-checking: una rete di partnership con organizzazioni giornalistiche e fact checker indipendenti, incaricati di valutare e segnalare i contenuti potenzialmente falsi o fuorvianti. Era l’inizio di un’era in cui le piattaforme digitali, tradizionalmente refrattarie a intervenire sul contenuto degli utenti, cominciarono a essere percepite come arbitri del dibattito pubblico.

Ma quell’era sembra ora giunta al capolinea. Con la decisione di abolire il fact-checking, Meta si allinea non solo con le istanze trumpiane, ma anche con il modello già adottato da Musk su X, dove il controllo dei contenuti è affidato a note collaborative scritte dagli utenti. Questo sistema, pur evocando una sorta di utopica intelligenza collettiva, si è rivelato largamente inefficace nel contenere la disinformazione, consentendo al contrario il proliferare di contenuti tossici. Gli analisti osservano con preoccupazione come questa svolta possa spalancare le porte a un nuovo ciclo di polarizzazione e radicalizzazione del discorso pubblico online.

Frame from Mark Zuckerberg speech via Meta website.

Il timing di questo annuncio per gli analisti americani non sarebbe casuale. Con l’insediamento imminente di Trump alla Casa Bianca, Zuckerberg sembra voler ricucire i rapporti con l’amministrazione repubblicana, incrinati dopo la sospensione degli account social dell’ex presidente in seguito all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Non sorprende, dunque, che Meta abbia scelto di muoversi in questa direzione proprio ora, quando il clima politico americano privilegia sempre più un’interpretazione estensiva della libertà di espressione, spesso a discapito della lotta contro la disinformazione e l’odio online.

Le implicazioni di questa scelta non si fermano ai confini statunitensi. Se è vero che per ora le nuove politiche non verranno applicate in Europa, dove leggi come il Digital Services Act impongono standard più stringenti alle piattaforme digitali, l’annuncio di Zuckerberg è comunque un segnale forte: l’era della moderazione come principio cardine dei social network potrebbe essere già finita. Le dichiarazioni del CEO di Meta contro l’Europa, accusata di istituzionalizzare la censura con normative soffocanti, suggeriscono un confronto crescente tra le due sponde dell’Atlantico su come gestire il potere delle big tech.

Eppure, nonostante la retorica sul free speech, i critici vedono in questa mossa una scelta profondamente politica. La nomina recente di figure vicine al Partito Repubblicano nei ranghi di Meta, come Joel Kaplan e Dana White, rafforza l’idea che Zuckerberg stia costruendo un asse strategico con la destra americana. Una strategia che, peraltro, riflette la traiettoria personale dello stesso Zuckerberg, sempre più vicino agli ambienti conservatori e stanco delle pressioni regolatorie e delle critiche ricevute durante l’amministrazione Biden.

Ma quali scenari si aprono ora? Eliminare il fact-checking potrebbe effettivamente portare a una maggiore libertà di espressione, come sostiene Zuckerberg, o è più probabile che si traduca in un’ulteriore perdita di fiducia nelle piattaforme digitali? Chi garantirà che il sistema delle “Community Notes” non diventi terreno fertile per manipolazioni organizzate? E, soprattutto, quale responsabilità si assumeranno le piattaforme quando le conseguenze del discorso incontrollato si manifesteranno nel mondo reale, tra violenze, disinformazione pandemica e sfide alle istituzioni democratiche?

L’abolizione del fact-checking non è solo una decisione operativa: è un manifesto ideologico che ridefinisce il ruolo delle piattaforme nel XXI secolo. Ma mentre Zuckerberg celebra il ritorno alla “libertà di espressione”, resta da capire quale sarà il prezzo di questa scelta, per le piattaforme stesse e per la società nel suo complesso. Perché, in fondo, la domanda cruciale è una sola: quanto costa davvero la libertà, quando è senza freni?

Niccolò Carradori

Ha studiato psicologia e nel 2013 è entrato a far parte della redazione di VICE Italia come redattore e staff writer, dove è rimasto fino alla chiusura della rivista. Negli anni ha scritto anche per Esquire, Rolling Stone, GQ e Ultimo Uomo. Dall’ottobre 2024 è entrato a far parte della redazione di The Bunker.  

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