È finalmente giunta l’ora di ridimensionare le aspettative sui magnati del Tech?
di Niccolò Carradori
Redazione THE BUNKER MAGAZINE
C’è un paradosso disarmante nella capacità di Elon Musk di catalizzare attenzione, come se il magnate fosse più un fenomeno atmosferico che un individuo, un evento naturale piuttosto che un uomo. In questa narrazione, il suo recente gesto all’insediamento di Donald Trump – un braccio teso in una posa che non ha richiesto didascalie – è diventato l’epicentro di una controversia mediatica.
La scena si è svolta nella Capitol One Arena di Washington, durante una delle celebrazioni più trumpiane che si potessero immaginare: un consesso esclusivo di leader mondiali, influenti delle piattaforme social, magnati del tech e politici, in un rito dove l’autocelebrazione si mescola con la spettacolarizzazione. Musk, ora ufficialmente a capo del Dipartimento per l’Efficienza Governativa (un titolo che sembra un meme partorito dal caos postmoderno), è salito sul palco per ringraziare i sostenitori di Trump. Prima si è battuto il petto, poi ha teso il braccio destro verso la folla. Il gesto è stato ripetuto, quasi con nonchalance, verso il pubblico alle sue spalle. E lì è iniziato tutto.
Le immagini sono state trasmesse in diretta, esplodendo sui social e nei media globali con una violenza che è ormai consuetudine nei discorsi che riguardano Musk. Alcuni lo hanno subito etichettato come un saluto nazista, mentre altri, come Andrea Stroppa, uno dei più fedeli sostenitori del miliardario in Italia, si sono affrettati a spiegare che si trattava di una manifestazione del suo autismo. “Sta dicendo ‘voglio darti il mio cuore’”, ha dichiarato Stroppa, salvo poi cancellare un precedente tweet in cui celebrava ironicamente l’“Impero Romano”. Musk stesso ha liquidato le accuse come un attacco infondato, aggiungendo un sardonico: “Francamente, dovrebbero ricorrere a sporchi trucchi migliori”.
Il gesto, comunque lo si voglia interpretare, non è solo un dettaglio della cronaca. È un prisma che rivela un quadro più ampio, in cui si intrecciano le dinamiche del potere, la percezione pubblica e il ruolo ambiguo dei magnati della tecnologia nella società contemporanea.
Negli ultimi tre decenni, i magnati della tecnologia sono stati investiti di un ruolo quasi profetico. Da Steve Jobs a Elon Musk, passando per Bill Gates e Mark Zuckerberg, questi uomini – perché quasi sempre di uomini si tratta – sono stati percepiti come visionari capaci di guidarci verso un futuro che solo loro potevano intravedere. In un’epoca di accelerazione tecnologica senza precedenti, si è pensato che potessero essere gli unici a possedere le chiavi per guidare trasformazioni del mondo.
È forse giunto il momento di ripensare al ruolo che assegniamo a questi nuovi “intellettuali” del nostro tempo. Perché questo sono diventati: una classe dirigente che, anziché scrivere libri o dibattere nei salotti culturali, costruisce piattaforme, lancia razzi e ridisegna algoritmi.
Ma se oggi guardiamo al risultato di questa narrativa, non possiamo ignorare una scomoda verità: la promessa di una rivoluzione antropologica tramite la tecnologia è rimasta largamente inadempiuta. Gli smartphone, i social media e l’intelligenza artificiale hanno certamente trasformato il nostro modo di vivere, ma non ci hanno reso più saggi, né più empatici, e tantomeno migliori come specie. Anzi, le tecnologie hanno spesso amplificato le nostre fragilità: la polarizzazione politica, la disinformazione, l’erosione della privacy.
In questo contesto, il gesto di Musk – consapevole o meno che fosse – sembra quasi una metafora di questa disillusione. Quello che un tempo avremmo interpretato come un atto di guida o di leadership è ora fonte di confusione, se non di preoccupazione. L’uomo che voleva portarci su Marte, rivoluzionare l’energia e riscrivere le regole della mobilità è oggi un personaggio polarizzante, capace di generare al contempo ammirazione e repulsione. Come un Masaniello che sa programmare in codice.
È forse giunto il momento, quindi, di ripensare al ruolo che assegniamo a questi nuovi “intellettuali” del nostro tempo. Perché questo sono diventati: una classe dirigente che, anziché scrivere libri o dibattere nei salotti culturali, costruisce piattaforme, lancia razzi e ridisegna algoritmi. Ma la domanda cruciale che rimandiamo da troppo tempo è: è sufficiente la competenza tecnica per guidare il mondo verso un futuro migliore? O forse – come suggerisce il crescente disincanto verso queste figure – abbiamo bisogno di ritornare a una visione più umanistica, capace di bilanciare il progresso tecnologico con una profonda riflessione etica e sociale?
La lezione di questa storia non riguarda solo Elon Musk o il suo gesto. Riguarda la nostra tendenza, come società, a cercare risposte semplici in figure straordinarie, a proiettare su di loro speranze che forse nessun essere umano può realisticamente soddisfare. La tecnologia, da sola, non può salvarci. Come dimostra il gesto ambiguo di Musk, è spesso lo specchio delle nostre contraddizioni, piuttosto che una via d’uscita da esse. Per affrontare le sfide del nostro tempo, dal cambiamento climatico alla crisi democratica, abbiamo bisogno di riscoprire la forza delle idee e del pensiero critico, di una narrazione che sappia unire progresso e umanità.
Forse è questo il messaggio più importante che possiamo trarre da questo episodio: non la condanna o l’assoluzione di Musk, ma la consapevolezza che il nostro futuro non può essere lasciato nelle mani di chi progetta macchine senza interrogarsi sul destino dell’uomo.
Niccolò Carradori
Ha studiato psicologia e nel 2013 è entrato a far parte della redazione di VICE Italia come redattore e staff writer, dove è rimasto fino alla chiusura della rivista. Negli anni ha scritto anche per Esquire, Rolling Stone, GQ e Ultimo Uomo. Dall’ottobre 2024 è entrato a far parte della redazione di The Bunker.