Dal Bauhaus all’IA: la visione di Moholy-Nagy reinterpretata da David Szauder
di Alessandro Mancini
Ad inaugurare l’ottava edizione di Fotonica, festival romano delle audio, visual e digital art, è un’installazione dell’artista ungherese David Szauder, che si ispira niente meno che a un’opera iconica del pittore, fotografo, designer e teorico costruttivista László Moholy-Nagy, Light Prop for an Electric Stage.
L’opera, concepita da László Moholy-Nagy e progettata dall’architetto István Sebők, era inizialmente destinata a essere un “dispositivo sperimentale per la pittura luminosa” con il potenziale di utilizzare le informazioni provenienti da diversi ambiti artistici per farla funzionare. Partendo dal prototipo dell’opera (l’originale è esposto nella collezione del Museo di Harvard), Szauder ha creato una performance interattiva che, tenendo conto del programma estetico-educativo di Moholy-Nagy, si arricchisce di un’esperienza uditiva che risponde all’ambiente di luci e ombre creato dal movimento della scultura.
Ad ospitarla, fino a sabato 21 dicembre 2024, il cortile dell’elegante Palazzo Falconieri, sede dell’Accademia di Ungheria a Roma.
Il lavoro di Szauder esplora a fondo il dialogo tra arte digitale e intelligenza artificiale, ma anche i concetti di memoria digitale e fallibilità, centrali in opere come Failed Memories. Una visione artistica frutto di una lunga ricerca che si è evoluta nel corso degli anni.
“Da bambino mi piacevano molto le vecchie foto – racconta Szauder – Mi piaceva cercare di capire chi potessero essere le persone ritratte nella foto e dove fosse stata scattata. Credo si trattasse di una curiosità genuina che, sebbene non sia scomparsa con il passare degli anni, si è trasformata in un interesse più concettuale. Adesso questa curiosità non riguarda più solo i luoghi, le persone e le situazioni, ma anche il significato dell’immagine stessa”.
La curiosità dell’artista ungherese riguarda oggi soprattutto la genesi di un’immagine: “Non si tratta solo di ciò che vediamo in una foto, ma anche di come la ricordiamo in seguito, spesso con dettagli diversi da quelli che abbiamo osservato in origine. Da quel momento in poi, l’immagine assume una vita e un’identità parallele nella nostra memoria. Questo spiega il fenomeno per cui, richiamando alla memoria un’immagine, questa assume caratteristiche diverse da quella che abbiamo visto inizialmente. Per rendere più complessa questa idea – continua – man mano che visualizziamo un numero sempre maggiore di foto, immagini e scene di vita reale, iniziamo a mescolare queste immagini nella nostra mente. Possiamo facilmente dimenticare le fonti delle immagini originali e utilizzare la nostra memoria per ricrearle in modo personale. Tuttavia, in questo processo di ricreazione, ci affidiamo inevitabilmente a immagini e fotografie già immagazzinate nella nostra memoria, una sorta di collezione ‘addestrata’”.
Szauder istituisce così un parallelo tra il metodo di generazione delle immagini nel cervello umano e quello utilizzato dall’IA. “È così che sono entrato in contatto con l’intelligenza artificiale e ho trovato il modo di celebrare la nascita dell’immagine – afferma – Sembra una lettera d’amore, non è vero?”.
La serie Anatomy Sweaters, che ha riscosso un grande successo online, fonde anatomia umana e texture digitali, quasi a creare un ponte tra biologico e artificiale. Anche in questo caso, il processo creativo ha coinvolto l’utilizzo di nuove tecnologie come l’IA.
“Mio padre è professore di Cardiologia – racconta – Ricordo che quando avevo 8 o 9 anni mi sedevo per terra nella sua stanza e passavo ore a sfogliare l’atlante di anatomia umana. Erano libri blu enormi, contraddistinti da un odore particolare. Sono certo che queste immagini sono in qualche modo immagazzinate nella mia memoria. Ero affascinato dalle strutture organiche delle vene e delle arterie, dal modo in cui attraversavano il corpo umano, creando connessioni intricate. Il corpo umano mi appariva come un sistema visivo perfettamente progettato”.
Questo, però, è stato solo l’approccio iniziale. Dopo sono sopraggiunte le fobie e le ansie: “Ho sviluppato anche la paura delle malattie gravi, soprattutto quando un amico della mia età si è ammalato gravemente. Fu un’esperienza che mi segnò profondamente. Ho iniziato a notare il lato ironico del corpo umano: è qualcosa che sta con noi per tutta la vita, ma è per lo più invisibile. Se potessimo vederlo, beh, sarebbe tutta un’altra storia”.
A quel punto è arrivata l’intuizione artistica: “Come potevo lavorare su questa contraddizione a livello visivo? È qui che sono nati il concetto di ‘inside-out’ e l’idea del maglione. Il maglione – morbido, confortante e caldo – contrasta con la complessità nascosta del corpo umano”.
L’intelligenza artificiale si è rivelata un’alleata preziosa per “la creazione di simulazioni visive, a patto che tu sappia come lavorarci – sottolinea l’artista – Richiede infatti una curva di apprendimento, ma questo è un discorso a parte. In ogni caso, utilizzando come fonti libri di anatomia, campioni e fotografie, alla fine sono nati i prototipi”.
"Non si tratta solo di ciò che vediamo in una foto, ma anche di come la ricordiamo in seguito, spesso con dettagli diversi da quelli che abbiamo osservato in origine. Da quel momento in poi, l'immagine assume una vita e un'identità parallele nella nostra memoria. ”
Nell’installazione Modulator V3 (Paraphrase of László Moholy-Nagy’s Light Prop for an Electric Stage), in programma al Festival Fotonica 2024, Szauder reinterpreta un’opera iconica del modernismo ungherese, realizzata nel lontano 1930.
“L’immagine dell’installazione originale fa parte dell’esperienza visiva e della memoria della mia infanzia – spiega l’artista – La guardavo spesso, ma non riuscivo a immaginare cosa facesse, come funzionasse o a cosa servisse. Per capirlo, ho dovuto riprogettare l’intera struttura e ricostruirla. Questo è il progetto più lungo della mia carriera creativa, perché ci sto ancora lavorando, coinvolgendo anche l’intelligenza artificiale per ottimizzare alcune parti”.
László Moholy-Nagy è stato uno degli esponenti di punta del movimento Bauhaus, oltre che una figura chiave per l’arte del XX secolo, grazie alla sua capacità di anticipare il dialogo tra arte, tecnologia e industria, influenzando il lavoro di molti artisti successivi, tra cui quello di Szauder stesso.
“Ho imparato molto dai maestri del Bauhaus – racconta l’artista ungherese – non solo da Moholy-Nagy, ma anche da Oskar Schlemmer, che è un altro modello fondamentale per me. Per quanto riguarda Moholy-Nagy, il suo approccio all’integrazione tra educazione e creazione è stato particolarmente significativo. Come artista che insegna all’università, anch’io mi trovo di fronte a innumerevoli domande e, nel mio caso, l’inclusione della tecnologia, in particolare dell’intelligenza artificiale, rende queste domande ancora più complesse. Attualmente sto insegnando all’Università MOME (Moholy-Nagy University of Art and Design, ndr) di Budapest e il modo di pensare di Moholy-Nagy mi è stato immensamente utile per trasformare questo processo in un successo”.
In un contesto di crescente integrazione tra arte e IA, negli ultimi Szauder si è aperto sempre di più alle sperimentazioni e all’esplorazione di nuovi orizzonti, resi accessibili grazie all’impiego delle nuove tecnologie. “La domanda più importante che mi sono posto negli ultimi tre anni – afferma – è stata come integrare l’intelligenza artificiale e l’arte nel mio lavoro. Come artista sperimentale, esploro costantemente nuove possibilità nell’arte digitale. Ho sperimentato numerosi generi, dalla robotica alla realtà aumentata. La mia attenzione è però sempre rivolta a come incorporare questi strumenti nel processo creativo. Lo stesso vale per l’intelligenza artificiale, anche se – ci tiene a specificare – la mia curva di apprendimento è stata più lunga rispetto ad altre tecnologie, soprattutto perché in questo campo ci sono molte meno regole fisse. Molti pensano che basti un prompt per la scrittura e che il vaso di Pandora si apra per rivelare la creazione perfetta, ma non è così. Con l’intelligenza artificiale, è necessario stabilire determinati flussi di lavoro e un notevole sforzo per trasmettere autenticamente il linguaggio visivo dell’artista. La vera sfide – conclude – sarà tenere il passo di fronte a una tecnologia che avanza a una velocità senza precedenti”.
Alessandro Mancini
Laureato in Editoria e Scrittura all’Università La Sapienza di Roma, è giornalista freelance, content creator e social media manager. Tra il 2018 e il 2020 è stato direttore editoriale della rivista online che ha fondato nel 2016, Artwave.it, specializzata in arte e cultura contemporanea. Scrive e parla soprattutto di arte contemporanea, lavoro, disuguaglianze e diritti sociali.